Nino Andreatta Oggi

Cosenza Università Arcavacata 18/02/2008

«Un esempio e una guida. Per lungimiranza, curiosità intellettuale, disponibilità all’ascolto». Con queste parole Enrico Letta ha introdotto il suo intervento al convegno Nino Andreatta Oggi, organizzato dall’Arel, dall’Università della Calabria e dalla Fondazione Guarasci, e svoltosi ad Arcavacata di Rende, in provincia di Cosenza presso l’Aula Magna dell’Università, lunedì 18 febbraio.


L’incontro – nel corso del quale è stato presentato il numero monografico della rivista dell’Arel dedicato appunto a Nino Andreatta – è stato aperto dai saluti di Giovanni Latorre, rettore dell’Università di Calabria, e introdotto da Gilda De Caro e Daniele Gambarara. Alle relazioni di Piero Giarda ed Enrico Letta hanno fatto seguito le testimonianze di numerosi docenti ed esponenti delle istituzioni locali, che hanno ricordato il contributo fondamentale di Andreatta nell’immaginare, progettare, costruire concretamente l’Università della Calabria, per poi dirigerla, come primo rettore, agli inizi degli anni Settanta.


Di seguito pubblichiamo l’intervento di Enrico Letta. Gli Atti completi del convegno saranno  riprodotti nel prossimo numero della rivista dell’Arel.


Nino Andreatta: giovani e formazione politica
di Enrico Letta


Nino Andreatta e i giovani. Chiunque l’abbia conosciuto sa quanto fosse speciale e fecondo questo rapporto. E soprattutto sa quanto, nel corso di tutta la sua vita, egli lo abbia cercato, alimentato, consolidato. Vorrei partire da qui per parlarvi di Nino Andreatta, aggiungendo qualcosa, anche di personale, a quanto vi ha raccontato Piero Giarda e a quel che su di lui avete letto, anche in questi giorni, e leggerete sulle pagine dello speciale della rivista dell’Arel.
La prima parola che mi viene in mente è “curiosità”. Una qualità – non ho dubbi che tale sia in generale, sicuramente lo era nel caso di Andreatta – che lo portava a preferire chi potesse dirgli cose non scontate, indicare strade non battute, scrivere spartiti nuovi. Curiosità per tutto, per il sapere acquisito e per le potenzialità intraviste, per le esperienze vissute e per le aspirazioni accennate, per la vita delle idee e per quella delle persone. Curiosità, dunque, che tanto più si accendeva di fronte a chi era all’inizio di un cammino.
Un altro tratto peculiare del suo carattere, adatto a fare particolarmente presa sui giovani, era l’informalità. Irrituale, Andreatta faceva subito saltare le gerarchie, dialettiche e di ruolo, con l’interlocutore, al quale tuttavia, con pochissime eccezioni, continuava a dare immancabilmente del lei. Non si aspettava la deferenza e gli atteggiamenti troppo ossequiosi non gli piacevano. Preferiva lo scambio alla pari e tendeva a porsi sempre sullo stesso piano della persona che aveva di fronte, di chiunque si trattasse e quali che fossero il suo grado di istruzione o il suo ruolo nella società. Dopo aver ascoltato a lungo, poteva all’improvviso interrompere con una domanda secca che andava al nocciolo della questione, senza filtri.
Gli interessava il cuore delle cose. Avido e generoso al tempo stesso, afferrava suggestioni e idee magari appena abbozzate e le restituiva elaborate e sviluppate per un lavoro possibile, mai stanco di inventare.
Per tutte queste ragioni Andreatta non è invecchiato mai, è stato giovane e insieme maestro di generazioni. La sua vocazione naturale all’insegnamento si è manifestata in tutti i campi in cui si è cimentato ed è stata una delle leve attraverso le quali ha inciso in modo indelebile sulla formazione di una parte rilevante della migliore classe dirigente del paese. Mercoledì scorso, nella giornata interamente dedicata a lui al Ministero dell’Economia e in Banca d’Italia, si è avuta la dimostrazione plastica di quanto elevato sia il numero delle persone che ricoprono o hanno ricoperto importanti cariche nelle istituzioni o nell’economia segnate dall’“imprinting” di Andreatta, in qualche modo “chiamate”.
Credo di poter affermare senza retorica e senza esagerazioni che la sua capacità di seminare, di far crescere le persone, di formarle non necessariamente per il momento “magico” dell’incontro, piuttosto per il “dopo”, non abbia eguali in Italia. Andreatta sapeva “dare” e “darsi”, pur nella riservatezza estrema del suo privato. Anzi, proprio il pudore dei sentimenti che in lui si avvertiva, insieme all’urgenza dello scambio profondo, faceva sì che il colloquio si mantenesse su un crinale particolarissimo, intellettuale eppure non freddo, dotato di confini eppure appagante.
Andreatta guardava al futuro. Per questo era autenticamente “politico”. Tuttavia non riteneva che la politica dovesse disporre di un suo specifico percorso formativo, di un “di più” e di un “diverso”. Che si trattasse di economia, di impresa, di accademia o, appunto, di politica, la sua disponibilità ad abbeverarsi alla fonte che in quel momento lo appassionava era totale, così come assoluta era la sua indisponibilità a derogare a princìpi solidi e rigorosi. Un’apertura a 360 gradi, dunque, sui temi e sul loro approfondimento; una fermezza senza tentennamenti sul piano della moralità della cosa pubblica.
E’ questa la ragione primaria che ne ha fatto l’uomo dei tempi difficili; il paese ha avuto bisogno di lui quando stava per perdersi e ha preferito rinunciarvi quando riteneva che le difficoltà fossero superate e che il suo rigore potesse diventare un impaccio. Anche per questo oggi, che viviamo tempi difficili, tutti sembrano rendersi conto a pieno del suo valore e ne avvertono la mancanza.
Tracce significative del suo passaggio sono visibili nelle istituzioni contraddistinte dalla socialità: nella facoltà di sociologia di Trento, dove fronteggiò con coraggio la dura contestazione del ’68 (chi c’era racconta che salì in piedi sulla cattedra e si mise a discutere con gli studenti); qui ad Arcavacata, dove negli anni Settanta scommise sul diritto di tutti al riscatto sociale, a partire all’istruzione di alto livello; nei centri studi di Prometeia e dell’Arel, dove volle applicare la libertà di analisi e la modernità dello strumento “privato” di riflessione alla ricerca sui temi del “pubblico”; nel Mulino, cenacolo di democrazia, laico e plurale, non ideologico; nell’Istituto per le scienze religiose, fondato da Giuseppe Dossetti, dove si sono concentrate le migliori intelligenze del cattolicesimo democratico. E poi nella Camera dei deputati, nel Senato, nei Ministeri che lo hanno avuto come guida. Tutti luoghi non solitari; al contrario, luoghi dove la socialità è il sale e il senso del loro stesso esistere e procedere; luoghi dove dal confronto, anche duro, nascono produzioni scientifiche, si decidono le regole per il paese, si formano e si scelgono classi dirigenti.


Da quanto vi ho detto finora, avrete compreso come il metodo con cui Andreatta operava per la formazione politica dei giovani non fosse diverso né disgiunto da quello con cui operava per la formazione dei giovani tout court. Era un metodo aperto, “educativo” nel senso più completo del termine: niente imposizioni, tanta dialettica, capacità di ascolto pressoché illimitata. Peculiarità, questa, che ha sempre colpito chiunque l’abbia incontrato, per un’ora, per un giorno, o per lunghi e intensi anni. Per un giovane – questa è stata la mia esperienza diretta – la disponibilità all’ascolto da parte dell’“altro”, soprattutto se l’altro è un personaggio di tale spessore, è l’esame più grande, perché costringe a costruire percorsi logici rigorosi, a fornire informazioni verificate e non approssimative, a non barare, perché si sa che non c’è scampo. Non era il timore di una sua sanzione a costringere all’attenzione estrema; la sanzione peggiore sarebbe stata sentirsi in una posizione falsa, svelarsi peggiori di quel che si era cercato di far credere. Una questione di onestà intellettuale e personale, insomma. Credo sia quel che accade con i veri maestri.


Tuttavia, non si può parlare di Nino Andreatta senza introdurre un concetto che di per sé non ha a che fare con fatiche e conquiste, perché è un dono: il carisma. Il carisma attrae e Andreatta attraeva. Il suo merito è stato quello di non sprecare il dono ricevuto così in abbondanza, ma di saper dosare i suoi talenti e utilizzarli per costruire. Costruire percorsi, soluzioni, rapporti. Costruire luoghi di incontro, di analisi, di elaborazioni; di formazione e crescita, anche sociale. Come questa università. Grazie al fascino intellettuale e umano di cui era dotato, Andreatta riusciva a far emergere il meglio dalle persone con cui si rapportava; le coinvolgeva nei suoi progetti che diventavano anche i loro, le faceva sentire parte di un disegno importante.


Incontrai Andreatta per la prima volta agli inizi del 1989. Lui era “già” Andreatta, anche se il rigore e l’intransigenza con cui, da Ministro del Tesoro, aveva affrontato una delle vicende più buie della nostra Repubblica, la bancarotta del Banco Ambrosiano, lo avevano tenuto fuori dal governo. E probabilmente nulla sarebbe cambiato senza il precipitare della crisi della Prima Repubblica. Era tuttavia un severo presidente di Commissione Bilancio e si era assunto l’ingrato compito di cercare di temperare la tendenza irrefrenabile alla spesa pubblica del Parlamento e dei partiti. Io venivo da Pisa, ero uno studente di scienze politiche alle prime esperienze politiche. Incominciai a collaborare con l’Arel e con lui.


Quando all’improvviso Andreatta – non era più neanche parlamentare perché la DC  aveva deciso di fare a meno di lui – nel febbraio 1993 diventò Ministro del Bilancio nel primo governo Amato, mi chiese di seguirlo. Fu per me l’inizio di un’avventura, che continuò, in forme diverse, al Ministero degli Esteri, dove Carlo Azeglio Ciampi lo chiamò appena due mesi dopo, e poi ancora, attraverso le vicende politiche italiane, dal governo all’opposizione e viceversa. Fino a quel 15 dicembre 1999, quando un malore sui banchi della Camera riunita in seduta notturna per la Finanziaria lo costrinse a un silenzio che non si è mai più interrotto.


Sul passaggio dal Ministero del Bilancio a quello degli Esteri voglio raccontarvi un episodio. Dunque, nel febbraio del 1993 Andreatta torna nel Palazzo che lo ha visto protagonista oltre dieci anni prima. Io lo accompagno. Un’esperienza durata solo sessanta giorni, eppure intensa come si trattasse di sessanta mesi. Giornate che invariabilmente non finiscono prima delle 23, problemi da affrontare e dossier complicati ai quali Andreatta si dedica con passione torrenziale, lui che ricomincia a lavorare come se non avesse mai lasciato queste stanze. Poche ore per costruire una stretta e affiatata squadra di collaboratori e il giorno stesso inizia a macinare lavoro. In sessanta giorni si completa la fuoriuscita dall’intervento straordinario nel Mezzogiorno, viene avviata la chiusura dell’Agensud, si affrontano gli strascichi infiniti del terremoto nell’Irpinia, si progettano misure per il nostro paese “rivoluzionarie” (e infatti mai realizzate) come l’unificazione degli enti di gestione degli acquedotti, si lavora a inventare nuovi strumenti con i quali rendere automatico e non più discrezionale l’intervento nelle aree “Obiettivo 1”, si cerca un rapporto forte con Bruxelles, nel tentativo di europeizzare da subito e con forza le amministrazioni italiane centrali e nazionali, rendendole capaci di interloquire con l’Europa. Il lavoro di Andreatta è un mix tra chiusura e apertura: chiusura di storie vecchie e poco virtuose dell’amministrazione pubblica; apertura di nuove forme di rapporto tra Bruxelles, Roma ed enti locali italiani, in una logica non più di assistenzialismo, ma di premialità, di partenariato pubblico-privato. Andreatta è completamente assorbito dal lavoro, determinato a portare a termine le azioni intraprese, quando l’ennesima crisi di governo modifica il corso degli eventi. Il nuovo presidente del Consiglio incaricato, Ciampi, lo vuole alla Farnesina. Conservo indelebile l’ultima immagine nelle stanze di via XX Settembre: Andreatta impegnato a stilare insieme a noi collaboratori un’improbabile lista di ministri degli Esteri da controproporre a Ciampi. Poi, quando è chiaro che si tratta di una battaglia destinata alla sconfitta, con sguardo tra il divertito e il distaccato, ci comunica che non può fare altrimenti e che dobbiamo preparare il trasloco. Si rivolge a me e, ben conoscendo la mia passione per la politica internazionale, mi dice: “Di tutti quelli che sono in questa stanza (quasi tutti economisti, ndr), lei è l’unico contento di quanto sta accadendo”. In realtà il suo sorriso ironico e un po’ monello fa capire a tutti che è pronto a buttarsi nella nuova avventura con la stessa passione e la stessa determinazione di quei sessanta giorni.


L’anno trascorso agli Esteri fu esaltante. Andreatta mi nominò capo della sua segreteria, un ruolo di grande responsabilità, che mi impegnò e mi fece crescere enormemente sul piano professionale e su quello umano. Quando, dopo le elezioni del ’94 e la formazione del governo Berlusconi, Andreatta fu alla guida del gruppo dei deputati popolari, la sua attività (e di conseguenza anche la mia) fu spiccatamente politica. Essere all’opposizione non lo deprimeva, tutt’altro. In quell’anno sfoderò tutto il linguaggio pirotecnico di cui era capace insieme a una notevolissima intelligenza e a una grande lungimiranza politiche. Come ormai tutti sanno, in quei mesi Andreatta avviò contatti significativi con l’allora PDS e iniziò a lavorare alla nascita dell’Ulivo, ritenendo venuto il momento di introdurre un elemento di forte innovazione nel sistema politico e dei partiti.
Dopo la vittoria elettorale del 1996 Andreatta entrò nel primo governo Prodi come ministro della Difesa. Non lo seguii, pur restando in costante contatto con lui e con i suoi più stretti collaboratori. Anche lì Andreatta lasciò il segno: riforma degli Stati Maggiori, istituzione del servizio civile e di quello militare femminile, missione multinazionale Alba (la prima a guida italiana), lotta al nonnismo, promozione dello studio dell’inglese nelle caserme, tour dimostrativi nelle spiagge mirati all’arruolamento dei giovani.
Ovunque sia stato, Andreatta ha “fatto”. Ovunque sia stato, ha lasciato segni importanti e ricordi forti, anche sul piano personale. Ne abbiamo avuto l’ennesima prova in occasione della pubblicazione di questo numero speciale della rivista dell’Arel a lui dedicato. La sollecitudine e la commozione con cui militari, diplomatici, professori universitari, uomini delle istituzioni e dei partiti hanno risposto al nostro appello, insieme al numero torrenziale di articoli usciti su quotidiani, settimanali e sul web nei giorni della scomparsa ci hanno sorpreso. E’ stato come scoprire che il maestro prezioso e tanto amato da noi non era solo “nostro”. Perché tutta l’Italia aveva capito chi era Nino Andreatta. E’ stata una sorpresa bella, che ancor di più ci spinge a raccontare di lui ai giovani e a ricordarne l’insegnamento.


Quanto a me, ad Andreatta devo tutto. Se però mi si chiede di indicare il suo lascito più sorprendente, penso al coraggio con cui ha affidato compiti delicati a un ragazzo di 27 anni senza tremare. Andreatta era così: se il suo intuito gli suggeriva una scelta, gettava la persona in mare aperto costringendola a nuotare. Non aveva paura di fidarsi dei giovani e della loro “straordinaria” inesperienza.